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Le stanze del museo

La scelta di organizzare gli spazi del museo riprendendo quelli di una casa è nata da un'intuizione: che ogni ambiente domestico potesse essere il gancio per affrontare un discorso specifico sulla disabilità, anche perché - forse, soprattutto perché - è proprio nella dimensione privata, domestica, che lo sguardo sulla disabilità assume un suo peso specifico.

E allora entriamo nelle "stanze", e proviamo a ragionarci su.

# 1 Ingresso

il pregiudizio dello sguardo

In ogni casa, l’ingresso è la prima stanza che accoglie gli ospiti. E si sa, la prima impressione è quella che conta.

Ma se questa impressione resta ferma nel suo pre-giudizio, ecco che ci ritroviamo de-finiti dallo sguardo altrui.

Uno sguardo che resta distante, che non ci dà la possibilità di rispondere, di ripresentarci, di mostrarci nelle nostre molteplici sfaccettature.

Non ci riconosciamo nell’immagine che l’altro ha di noi e ci sentiamo colpiti nel profondo della nostra identità: “Io non sono così!”.

Proprio quello che succede – ancora oggi – alla maggior parte delle persone con disabilità, e in particolare a quelle con disabilità intellettiva.

# 2 Soggiorno

il potere delle parole

Il soggiorno è il luogo dove ci si siede, si fanno due chiacchere, guardiamo la tv, leggiamo un libro. La stanza delle parole, quindi.

 

Le cosiddette “parole con l’H” stanno sempre sul filo di un paradosso.

Da una parte c’è la necessità, quasi impellente, di avere la parola giusta che sappia dare un nome ‒ almeno un nome ‒ alla patologia appena riscontrata.

Dall’altro c’è lo scoprire che la parola non basta, o anzi peggio può diventare solo una comoda scorciatoia, buona per assegnare un percorso già dato, utile per indirizzare al meglio il destino altrui.

# 3 Cucina

gli ingredienti della narrazione

Cucinare per sé stessi. Oppure per gli altri. Non si tratta in ogni caso solo di tagliare, sminuzzare, mettere a cuocere e aggiungere di sale. C'è sempre un qualcosa in più di creativo: perché chi cucina, parte da una ricetta, ma poi - per scelta, desiderio o solo per gli ingredienti che ha a disposizione - ci mette sempre del suo.

E allora, fuor di metafora, quali sono gli ingredienti narrativi che usiamo nel raccontare la disabilità?

Gli stereotipi, le frasi fatte e già pronte per l’uso?

Oppure ci sforziamo di raccontare – più che la disabilità – il nostro sguardo e la relazione in cui stiamo dentro, con tutte le sfumature che ogni vera relazione comporta?

# 4 Sala da pranzo

la rete che irretisce

Una tavola apparecchiata con cura, ed è già aria di festa, di convivialità. E così la sala da pranzo rimanda direttamente al tema dell’inclusione, dello stare assieme, dell’“aggiungi un posto a tavola”. D’altronde, questo è quello che le numerose norme del settore prevedono: che nessuno resti escluso, che per ognuno vengano rispettati i diritti, chela persona sia messa al centro dei servizi.

Ma è davvero così? Siamo proprio sicuri di non esserci scordati qualcuno?

O ancora peggio, non è che mentre si parla di inclusione, mettiamo in atto pratiche che in realtà tendono ad escludere?

# 5 Bagno

i riti di purificazione

Lavarsi, levare lo sporco, evacuare, disinfettare: sono tutte azioni che di fondo rimandano a una purificazione.

Utilizzeremo allora la stanza del bagno per ricordarci che sin dall’antichità la disabilità è stata considerata come condizione da eliminare, da allontanare e da cui purificarsi. Oppure come devianza da controllare per proteggere l’ordine sociale.

Pochi e brevi appunti “di servizio”, necessari però per una riflessione sulle attuali pratiche e politiche di inclusione e di esclusione. Ed ecco che allora lo specchio di un bagno diventa una buona metafora per riflettere sull’immagine di quello che vorremmo essere, di quello che diciamo di essere e di quello che in realtà siamo.

# 6 Camera da letto

la camera dei "ragazzi"

Il letto, nella casa, rappresenta la nostra parte più intima e privata. Ha a che fare con l’immaginario e il non detto, con i segreti e il notturno. È la soglia verso un giorno nuovo.

Dal lettino di quando eravamo bambini, ai turbamenti di un letto adolescenziale, fino a quello di un’adultità conquistata, questo oggetto sembra quasi un’appendice del nostro corpo, di cui ne segue l’evoluzione, di cui soddisfa diversi bisogni (riposare, dormire, sognare, fare l’amore).

Ma per le persone con disabilità, in particolare per le persone adulte con disabilità intellettiva, alcuni di questi bisogni non vengono presi in considerazione. Non è un caso che vengano chiamati “i ragazzi”. Perché da un certo punto in poi non hanno più un’età definita. E quindi nemmeno diritti definiti. “Tanto sono ragazzi, loro stanno bene così”.

# 7 Studio

o della sacra disabilita'

L'ultima stanza vuole provare a svelare la ricerca che c'è dietro questo museo.

Vuole esporre i concetti chiave che sono stati utilizzati per aprire un discorso sulla disabilità che non resti chiuso nelle stanze di un Ufficio Disabili, nelle camere di una Comunità Alloggio, nei locali di un Centro Diurno, in uno studio medico o terapeutico.

Perché se la disabilità è anche una questione culturale, allora è una questione che riguarda tutte e tutti, non solo le persone con disabilità e i loro familiari. Non riguarda solo il sistema del welfare ma anche (e soprattutto) quello dell'esigibilità dei diritti, in quanto persone.

Altrimenti resta sacra: una disabilità che oggi viene celebrata con la formula retorica del "nessuno tocchi i disabili!", vera e propria formula magica perché permette, nell'apparente rispetto, di lasciarla alla "giusta" distanza e di renderla, letteralmente, intoccabile.

Vuoi visitare il Museo?

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