La nostra storia
Siamo nati nel 2004, a Roma.
Una piccola associazione, cresciuta nella fondamentale e formativa esperienza al Centro Sociale Carlo Iavazzo, in cui ci siamo conosciuti, ed era il lontano 1990.
Con il tempo abbiamo sentito l'esigenza di fare - o almeno provare a fare qualcosa in più. Proseguire l'attività di teatro integrato, un paio di volte al mese, certo. Ma provare a fare qualcosa di diverso, di nuovo. Parlavamo di lavoro e di inclusione, ma erano solo pensieri.
Poi la notizia, all'improvviso, inaspettata. Una signora, Renata Skok, rimasta colpita dal nostro approccio alla disabilità, ha scelto di fare una donazione testamentaria a nostro favore. "Purtroppo non sto bene. E non ho figli. Ma vorrei veder realizzata una caffetteria dove possano lavorare ragazzi disabili, e ho pensato a voi", ci disse. E noi accettammo. In modo pienamente inconsapevole, se non della nostra voglia di realizzare il sogno. Tutti quei pensieri, che sembravano parole al vento, ora potevano trovare piena concretezza. Ma come fare? Cosa fare? Come si fa una caffetteria? E perché non puntare allora ancora più in alto?
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Abbiamo cercato un locale, ovviamente in una zona vicina a dove gravitava il gruppo.
L'abbiamo scelto con Renata, lei era contenta ma sapeva di dover morire a breve, e così è stato. Era febbraio del 2007.
Lì abbiamo capito che ormai non potevamo tirarci indietro, che una decisione andava presa. E allora giù con interminabili riunioni. Una libreria caffetteria? Un bar? Un ristorante, sì, però è complicato!
Nel frattempo, e nei dubbi, abbiamo avviato un centro culturale, con qualche iniziativa, con un po' di prima formazione. E grazie a un progetto sostenuto dalla Provincia di Roma, e grazie alla collaborazione di Solidarius Italia, abbiamo incominciato a fare cose, vedere gente, ma soprattutto a raccontarci. A far raccontare i genitori della loro esperienza, ma sempre con il nostro stile, non autocommiserativo, ma per far conoscere agli altri, al "fuori", le nostre storie. E ne è nato un libricino, "A fuoco lento", il cui merito principale è di aver indirizzato il gruppo al valore del racconto, alla necessità di una postura narrativa non solo per tenere assieme i propri pezzi di vita, ma anche per saldarli in una forma minima comune.
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L'impasse però restava, perché i volontari si continuavano a confrontare nel passaggio dalle parole ai fatti, e ognuno poi ha i suoi "ma", i suoi "però", e non se ne usciva.
"Ma se facessimo un museo con tutti questi racconti, e al suo interno ci mettiamo un bar?", disse un giorno, timidamente, uno dei nostri, senza pensare che tutto quel lavoro fatto sulle narrazioni ebbe anche il risultato di far dire a tutti i presenti: "Bello, sì facciamolo!", come se un museo del genere, con bar annesso, fosse la cosa più semplice al mondo.
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L'incoscienza a volte è davvero potente. Perché a giugno 2014, la "Casa Museo dello sguardo sulla disabilità", con annesso angolo bar e laboratorio di gastronomia fredda era cosa fatta. In modo ingenuo, di sicuro. In modo poco commerciale, ancor più sicuro. Ma noi stavamo costruendo un gruppo, piano piano, un passo alla volta, questo era il nostro obiettivo, e il piacere del fare e costruire assieme era più forte dei bilanci sbilanciati.
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E così, dopo i primi tentativi - in cui per capirci, per far cassa e numero, mangiavamo a pranzo anche noi, paganti e contenti - abbiamo deciso di optare per un "ma allora facciamola tutta". E così, a novembre 2018, è nato il Museo Bistrot. Ed eccoci qui.
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